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Immagine del redattoreNina Ferrari

Essere o fare? Una domanda che riguarda la nostra solitudine


solitudine - incontro con gli altri - essere o fare - Il Tuo Biografo - riflessione

Entrare in relazione con gli altri nella vita quotidiana è un'impresa difficile, e non solo in occasione degli eventi sociali più formali. Quando incontriamo qualcuno per la prima volta, di solito ci presentiamo con il nostro nome. Dopo poco, se la conversazione continua, arriva la domanda: «di cosa ti occupi?». Si chiacchiera molto, ma si conosce poco degli altri. Si finisce spesso per sentirsi soli, per via di tanti mancati incontri autentici con le persone che incrociamo e che fatichiamo a sentire vicine. E credo che questo accada perché la nostra attenzione è troppo spostata sul fare e troppo poco sull'essere.

Virare il discorso su cosa si fa è un'abitudine sociale, un modo per trovare un argomento di discussione non troppo intimo o invasivo, ma è anche un'opportunità mancata per sondare le possibili passioni dell'altro. A volte può trattarsi, semplicemente, di reale curiosità. Ma la risposta a questa domanda, anziché riempire un vuoto di informazioni rispetto a chi abbiamo davanti, spesso ne copre solo gli orli, perché sovente ciò che facciamo non è che la parte più immediata e visibile di ciò che siamo; è cioè una facciata di noi. Ci fa rimanere a un livello superficiale. Del resto, la comunicazione telematica a cui siamo così abituati non ci ha già assuefatti alla superficialità come a una condizione normale? Proprio come suggerisce il cantante Moby nel video di Are You Lost In The World Like Me, la maggior parte delle interazioni umane oggi sembra portare, più che a un reale incontro, alla solitudine e all'alienazione (se volete dare un'occhiata al suo video, ve ne ho parlato in questo post).

Questa superficialità può davvero apportare qualcosa di positivo nelle relazioni umane?

Domandare a qualcuno «di cosa ti occupi?» è un po' come chiedere in che attività spenda almeno la metà del suo tempo, ma non sempre è detto che questo tempo sia di maggiore qualità rispetto ad altri momenti più brevi dell'esistenza e che pure aderiscono di più all'immagine che abbiamo di noi stessi. Tranne che, naturalmente, per quei pochi fortunati per cui lavoro e passioni personali coincidono, e per cui fare qualcosa ed essere qualcuno (cioè loro stessi) sono due aspetti che coincidono almeno in parte. Per via di tutti i compromessi con cui la vita ci impone di fare i conti, è difficile riuscire a combinare una totale aderenza tra queste due necessità (ma qualcuno, come il filosofo danese Kierkegaard, ha provato a invitare a riflettere di più su questo aspetto: ve ne ho parlato in questo articolo).

Ciò che importa, però, è che parlare di qualcosa di ininfluente nella nostra vita rende ininfluente la conversazione stessa, così come l'incontro con la persona che abbiamo davanti; che è come dire: non aver parlato affatto, non aver trovato un terreno comune su cui costruire una relazione. So di avere il brutto vizio di voler infilare Virginia Woolf un po' dappertutto, ma anche in questo caso non resisto: quando penso al concetto stesso di individuazione di un terreno comune con l'altro, penso sempre alla definizione di scrittura dell'autrice inglese: ovvero alla costruzione di un ponte tra due alterità (ve ne ho parlato in questo articolo). Non è forse proprio questa la base di ogni comunicazione?

Non tutti riescono a raggiungere l'obiettivo di far coincidere la propria attività con ciò che si vorrebbe essere e molto spesso il cosa si fa è il risultato di un compromesso, più o meno riuscito, tra ciò che si sa fare e ciò che si è. Ancora più spesso è un modo per tirare avanti la baracca, permettendo così di vivere le parti più autentiche della nostra vita, quelle che sono importanti al di là di ciò che si fa, ma che vengono estromesse dal discorso con gli altri a un primo incontro.

Ed eppure continuiamo imperterriti a porre questa domanda, a dare questa risposta, consci che nel quotidiano chiacchiericcio queste parole si perderanno tra le molte altre dimenticabili parole che scandiscono le nostre giornate. Ma queste parole non servono ad avvicinarsi a nessuno, né a costruire nulla. Ci lasceranno dove siamo, cioè a un passo dall'Uomo che abbiamo di fronte, vicini ma lontanissimi. Come iniziare a entrare in relazione con l'altro?

Certo, strano sarebbe che qualcuno ci chiedesse a un primo incontro: «chi sei?», perché questa è una domanda che può fare paura per le tante risposte a cui può dare luogo. E poi perché per la sua profondità può ammutolirci. Mica siamo disposti ad aprirci subito sulle cose importanti col primo estraneo che incontriamo sul nostro cammino. Eppure forse un compromesso verso un interesse più autentico nella relazione con gli altri può essere trovato. Potremmo pensare di chiedere: «cosa ti piace fare?», e questo sarebbe un bel passo avanti pur rimanendo nell'innocuo discorso del fare, perché metterebbe luce al punto di vista personale di colui che abbiamo davanti, cioè il suo modo di essere. O, ancora: «come sei arrivato a fare questo?», che è una domanda che metterebbe in luce il vissuto del nostro interlocutore, cioè il suo percorso, le sue svolte e le scelte che lo hanno portato a questo punto.

A differenza di quanto profetizza Moby nel suo video, non siamo atomi disgiunti, ma esseri umani il cui fondamento risiede nella socialità con gli altri. E la comprensione dei problemi, così come la capacità di risolverli, risiede spesso nell'approcciarsi alle questioni che riguardano la nostra vita con un atteggiamento non solo logico, ma anche umano. Non dovremmo dunque mai dimenticare di entrare in relazione con l'altro, perché forse nel capirlo possiamo trovare, oltre che vicinanza e conforto, anche un punto di vista che illumini il nostro percorso; del resto, raccontarci ci fa stare bene: ne ho parlato diverse volte in queste pagine, ma in particolare in questo post. Magari è una banalità, ma del tipo che nel quotidiano è difficile mettere in pratica con costanza: bisogna parlarsi di più, ma soprattutto imparare a farlo meglio e ad ascoltare. Con questo proposito in mente, fare attenzione all'essere oltre che al fare potrebbe rivelarsi, sulla lunga distanza, una chiave per vivere meglio tutta la nostra esistenza. E per sentirsi un po' meno soli.

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