Se chiunque ci chiedesse di rispondere alla domanda: «Cos'è la memoria?», non indugeremmo un attimo a replicare che si tratta della facoltà che ci permette di ritenere un'informazione, qualsiasi essa sia. Grazie alla memoria, infatti, ci è possibile custodire nel presente qualcosa che appartiene al passato, per poterlo poi anche eventualmente tramandare al futuro.
Tramandare un ricordo al futuro è però un atto volontario: ed è proprio per questa ragione che, per rispondere esustivamente alla domanda iniziale, non solo dovremmo dire che la memoria ci permette di trattenere un'informazione, ma anche all'occorrenza di rievocarla, mostrarla o spiegarla. Nessun oggetto è capace di spiegarsi da solo: il suo significato deriva sempre da una rete di informazioni, ovvero da un contesto, senza cui qualsiasi ricordo rimarrebbe vuoto, muto, morto. Ovvero, anche quando c'è, privo di quel contesto è come se non esistesse, perché può tutt'al più segnalarci che qualcosa prima di noi c'è stato, anche se non è più possibile dire cosa.
A volte ci capita di ritrovarci tra le mani una vecchia fotografia rinvenuta nella soffitta o nella cantina dei nostri nonni: di fronte ai volti sconosciuti di coloro che vi sono ritratti ci rendiamo conto di essere al cospetto di qualcosa di importante per i nostri parenti, ma che a noi non dice più nulla. Questi sono i casi in cui la memoria ha funzionato a metà: perché, certo, siamo riusciti a conservare un ricordo, ma non a dargli modo di essere rievocato. E così, invece di un mucchio di ricordi, nelle vecchie case dei nostri nonni ci sembra sia rimasta solo una cospicua quantità di ciarpame. Perché non sa più parlarci, perché non ci dice nulla. E non ha senso tenere qualcosa che per noi non ha significato.
Perché una memoria sia tale, dunque, è necessario che al ricordo sia affiancata anche una narrazione, una storia che gli dia valore e che sia capace di sopravvivere al trascorrere del tempo. I nostri genitori, i nostri nonni e in generale i nostri antenati, spesso credono - purtoppo a torto - che la loro testimonianza orale basti alla conservazione di ciò che hanno vissuto. Questo sarebbe vero se nel momento in cui i nostri cari si raccontano trovassero un orecchio appassionato desideroso di conoscere il proprio passato almeno quanto loro lo sono di raccontarlo, ma non sempre le reciproche fasi della vita concedono questo genere di incontro. E così a volte si finisce per dire «quanto vorrei aver chiesto quella cosa a mia madre», nel momento in cui chiedere e ottenere una risposta non è più un'opzione possibile.
Sono molte le strategie che si possono adottare per conservare il proprio patrimonio di ricordi familiari affinché, quando i tempi saranno maturi, chi ci succede possa nutrirsene e goderne: c'è anche chi, proprio su questo argomento, ha scritto libri e manuali, di cui abbiamo già lungamente parlato proprio qui sul blog de Il Tuo Biografo. Il punto è che, qualsiasi metodo si decida di adottare, esso dovrà svilupparsi in una relazione tra le due componenti fondamentali della memoria, ovvero quella della conservazione e quella della rievocazione: bisogna fare in modo che i ricordi abbiano un significato e continuino a parlare ben oltre la presenza di chi li ha vissuti, in modo che si facciano storia e possano essere tramandati come parte della propria mitologia familiare, come accade in fondo per ogni tipo di conoscenza.
Immagine e racconto si fondono nella memoria in un'unica entità capace di rendere presente ciò che è assente: c'è chi sceglie di raccontare la propria storia in un diario o in un libro vero e proprio, in un minuto resoconto letterario; e c'è chi invece magari vuole dare significato alle fotografie della sua vita in un album di ricordi fatto per parlare al di là dello spazio e del tempo, grazie a didascalie che raccontino una storia. Un ricordo si tramuta in memoria quando è capace di comunicare il proprio significato. Il vero peccato è lasciare che i ricordi si ammutoliscano, fino a scomparire per sempre.