Come ogni altra forma di espressione, la scrittura è una diretta emanazione di quello che siamo. Non importa che il nostro stile sia bello o brutto o che le nostre frasi siano perfette dal punto di vista grammaticale: quando scriviamo, buttiamo fuori una parte di noi stessi e proprio per questo vale la pena di prestarvi attenzione: sia dal punto di vista del contenuto fattuale o emotivo (che è in gran parte oggetto degli studi sulla scrittura espressiva, di cui, forse lo ricorderete, vi ho già parlato in questo articolo) che, anche senza perdersi in inutili giudizi estetici, sotto il profilo formale.
Mi chiederete: come si può prestare attenzione alla forma della scrittura senza giudicarla dal punto di vista estetico? Ebbene, è ciò che io faccio ogni giorno nel mio lavoro di biografo, quando, nel corso di un percorso biografico personalizzato, nelle parole scritte dei miei clienti ritrovo l'indizio di un non detto, di vissuti non ancora pienamente elaborati o di episodi del passato il cui senso - soprattutto quello emotivo - non è ancora del tutto chiaro a chi l'ha scritto. Quando scegliamo le parole che ci servono a raccontare qualcosa, infatti, a volte inconsciamente evitiamo di dirla direttamente, perché - di solito per sopravvivenza - nel corso della vita ci siamo abituati a convivere con quel dato evento senza guardarlo con la precisione che invece è necessaria a descriverlo.
Quando però siamo chiamati a raccontare, dobbiamo essere in grado di spiegare ciò che narriamo, perché desideriamo che un eventuale lettore ci capisca: molto spesso capita che sia il processo di scrittura stesso a spiegarci il contenuto preciso delle nostre riflessioni, perché, attraverso la costruzione della frase, diamo forma e struttura a ciò che prima avevamo dentro magari solo ancora in modo informe. Come esperta di scrittura, e in particolare di quella biografica, mi capita spesso di riconoscere negli scritti dei miei clienti alcuni passaggi-spia, che, mentre rimandano a qualcos'altro, al mio occhio di biografa-lettrice appaiono come ancora involuti; ciò che allora chiedo è di provare a sviluppare quel contenuto attraverso parole che infilzino il senso esatto di quel non detto.
Col mio aiuto si cerca quindi di tradurre in scrittura ciò che la persona voleva dire veramente; molto spesso è proprio la riflessione sulla scrittura a rendere pienamente visibile il significato profondo di quel passaggio o - senza essere troppo ambiziosi - a individuare anche solo una tematica importante, a cui prima non era stato dato peso. Finalmente espresso sulla carta, perché scritto di suo pugno, ci troviamo allora a guardare, pienamente rivelato, lo gnocco emotivo che prima non era stato possibile afferrare e che ora appare invece così chiaro e compiuto; quando questo accade, lo scrittore prova un piacere incommensurabile, perché grazie alla narrazione è diventato padrone del suo vissuto - o almeno di uno dei modi in cui è possibile raccontarlo.
Sia chiaro: non mi sognerei per niente al mondo di lavorare sui grovigli emotivi delle persone, perché non sono una psicologa, ma una biografa. Eppure, lavorando sul testo scritto visto come espressione di coloro a cui mi affianco, e ricercando il più possibile una narrazione autentica del loro vissuto, mi è possibile individuare contenuti importanti di cui poi i miei clienti faranno ciò che vorranno, sia in termini di ulteriore ricerca che di consapevolezza. Ciò che a me interessa è lavorare assieme sulla struttura e sulla lingua di chi mi sceglie come supporto della narrazione della sua vita, in modo che col mio aiuto venga redatto un testo che possa essere definito una biografia.
Per fare questo bisogna dunque concentrarsi su due fronti: da un lato, sull'individuazione di una struttura che il futuro scrittore potrà seguire passo passo nel corso della stesura della sua opera; quest'intelaiatura non serve solo a tracciare l'arco narrativo, ma anche a palesare i temi centrali attorno a cui ruota l'intera narrazione (di quest'ultimo punto, che è importantissimo, vi ho già parlato in questo articolo: dunque qui non mi dilungherò oltre). Dall'altro lato, quando la struttura è stata identificata, si passa al lavoro sulla scrittura stessa, sulle parole e sull'incedere ritmico delle frasi: perché le parole sono il luogo in cui il concetto si esprime con la forma, che diventa a sua volta parte di quel significato.
Finora ho raccontato ciò che faccio in via teorica e di solito purtroppo non potrei che fermarmi qui. Per permettere che i miei clienti si abbandonino davvero a una scrittura autentica, infatti, firmo a ognuno di loro un accordo di riservatezza, che naturalmente mi impone di non poter parlare della loro identità, né della loro storia, né del lavoro che svolgiamo assieme. Si tratta di un piccolo scotto da pagare in cambio della possibilità di riuscita dei percorsi che seguo. Oggi però, al contrario di quanto mi accade normalmente, vi posso dare una piccola dimostrazione di ciò che ho cercato di spiegare in questo articolo, perché una delle persone che affianco in un percorso biografico personalizzato mi ha dato il permesso di usare le sue parole per restituire un esempio del lavoro che conduciamo assieme.
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N. è una donna matura, che col mio aiuto sta scrivendo la sua biografia. Ha una memoria straordinariamente vivida della sua prima infanzia, tanto che nel corso della sua vita si è posta dei dubbi al riguardo: ciò che ricorda è reale o è piuttosto una specie di sogno? Quando sua madre era ancora in vita, di questo ha provato a parlare anche con lei: ciò che importa sapere in questo contesto è che la madre di N. era una persona rigida e poco affettuosa e questo ha profondamente segnato N., che infatti fin da piccola ha sviluppato la tendenza a nascondersi, a non risaltare, perché le sembrava che questo fosse l'unico modo per essere lodata dalla sua mamma - o almeno per non esserne sgridata. N. è madre a sua volta: ha una figlia che ama moltissimo, a cui cerca di essere di sostegno.e con cui ha sempre cercato di parlare.
Ad un certo punto della sua biografia, N. descrive la stanza in cui dormiva quando era ancora poco più di una neonata:
«Ho potuto descrivere a mia madre, fin nei minimi dettagli, la disposizione della stanza in cui mi trovavo: mamma portava un vestito estivo bianco a pois colorati. La culla in midollino stava in sala da pranzo a fianco della cucina e davanti alla portafinestra del balcone. Arredava lo spazio rimanente: una vetrina bianca in stile anni Sessanta con agli angoli due portafiori pure bianchi, al centro un tavolo rettangolare dal piano in formica a quadretti neri e bianchi, più sei sedie. Al tempo mi sembrava una stanza molto grande e spoglia, poi crescendo tutto si rimpicciolì. Volendo avere conferme da mia madre le raccontai di quella mia prima esperienza e lei mi confermò ogni cosa, ma lo fece con una strana quanto incomprensibile indifferenza».
Il mio occhio di biografo è rimasto colpito soprattutto da una frase:
«Volendo avere conferme da mia madre le raccontai di quella mia prima esperienza e lei mi confermò ogni cosa, ma lo fece con una strana quanto incomprensibile indifferenza».
E, in particolare, da queste parole:
«Lo fece con una strana quanto incomprensibile indifferenza».
Cosa voleva dire N. quando scriveva «strana»? «Strana» in che modo? Sua madre era inquieta o inquietante? O niente di tutto questo? Allo stesso tempo, quando usava la parola «incomprensibile», N. cosa intendeva esattamente? Era «incomprensibile» ai suoi occhi di un tempo, mentre parlava con sua madre? Oppure lo sembrava oggi, mentre raccontava di quella conversazione col senno di poi? Chiesi a N. di spiegarmi più approfonditamente cosa aveva voluto dire quando aveva scritto quella frase e assieme ne discutemmo un po'. Dopo aver riflettuto su quel passaggio, e dopo un'accurata ricerca delle parole giuste, N. riformulò la frase in questo modo:
«Volendo avere conferme da mia madre le raccontai di quella mia prima esperienza e lei mi confermò ogni cosa, ma lo fece con distaccata noncuranza».
Ora, a voi potrà sembrare nulla, ma l'assenza di una sana affettività con sua madre è un tema centrale nella vita di N., perché a partire da quel rapporto particolare la sua vita si è spesso giocata in un equilibrio tra ritrosia e necessità di esistere, tra senso di separazione e bisogno di appartenenza, che spesso si è tradotto nel vivere forme d'amore che, invece di gratificarla, le hanno portato sofferenza.
Sua madre appariva «strana» e «incomprensibile» alla donna che lei è oggi, alla madre che lei è oggi, perché, di fronte a una simile conversazione con sua figlia, N. avrebbe reagito in maniera molto diversa rispetto a come aveva fatto sua madre con lei. Nel corso della stesura della sua biografia, N. guardava a quel momento giudicandolo dall'alto del suo essere narratore onniscente, ma non era tornata a inserirsi in quel particolare frammento di vita; forse perché guardare in faccia la «distaccata noncuranza» di sua madre era una cosa di cui, mentre scriveva, faceva volentieri a meno; o forse perché a volte è più facile raccontare le cose da lontano.
Il punto è che, quando arrivammo a definire l'atteggiamento di sua madre con le parole «distaccata noncuranza», sapevamo di aver centrato il bersaglio: avevamo introdotto questo argomento che poi sarebbe tornato altre volte nel corso della narrazione ed eravamo anche riuscite, una volta per tutte, a definire con precisione ciò che nel corso della sua vita aveva lasciato N. sgomenta tante volte: la noncuranza di sua madre nei suoi confronti in determinate circostanze che avevano vissuto assieme.
Aver compreso pienamente questo cambiava qualcosa? Chiamare col suo nome qualcosa che l'aveva fatta soffrire poteva effettivamente aiutare N. a dare un senso al suo vissuto, a inquadrarlo entro un argine definito di cui, con la scrittura, prendeva il controllo almeno nella narrazione? Insomma, scrivere la sua biografia sta dicendo a N. qualcosa di nuovo di se stessa? N. dice di sì. E io di questo sono felice.
Anche se in fondo mi occupo solo di narrazione e di parole, grazie al lavoro che svolgo con N. e con altre persone come lei divento testimone del potere rivelatore, e a volte anche curativo, della scrittura biografica. Struttura, ritmo e scelta delle parole sono strumenti che permettono a chiunque di approfondire il proprio vissuto, indipendentemente dal fatto che si sia affiancati da un biografo; e infatti a chi ne senta il bisogno - o a chi sia semplicemente incuriosito - io consiglio sempre di scrivere, con o senza la mia supervisione. Ne ho parlato diverse volte nel blog, ma in particolare in questo articolo.
Ciò che cambia con un professionista al proprio fianco è la consapevolezza del potere rivelatore di alcune parole che usiamo o, magari, che non usiamo. Perché spesso le parole che scriviamo rimandano a qualcosa di completamente diverso rispetto a ciò che pensavamo all'inizio; sapendo prestar loro attenzione, esse spesso sanno svelare di noi significati che abbiamo dentro, ma che, magari, non abbiamo ancora avuto il coraggio di vedere o di chiamare con un nome che renda giustizia alla nostra esperienza.
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Sono molti gli autori, spesso anche eccezionali, che hanno riflettuto su cosa renda grande la scrittura e su quali siano le regole da seguire quando si vuole scrivere un romanzo. Senza credere che alcuno di questi suggerimenti sia un dogma, il blog de Il Tuo Biografo si diverte di tanto in tanto a riportare queste riflessioni nei suoi «consigli di scrittura»: se vuoi sfogliarli tutti, clicca qui.
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Per leggere altri articoli che approfondiscano l'importanza della scrittura biografica e le sue diverse sfaccettature, i suoi obiettivi e i suoi metodi, clicca qui.
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