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La celeberrima scrittrice Grazia Deledda (1871-1936) ha scritto delle opere pregevoli, intense e ricche di sentimenti. Ad oggi, tuttavia, pur essendo la prima donna italiana ad aver ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura nel 1926, sembra essere poco considerata nel panorama letterario italiano, se non addirittura finita nel dimenticatoio. A mio avviso la figura e l’opera di questa grande autrice vanno, invece, riscoperte, perché hanno ancora molto da dire ai lettori moderni. Grazia Deledda si pone come la voce di una terra senza tempo, distaccata dalla cultura e dalla esperienza civile della nazione e dà voce a una civiltà di pastori, da millenni costretta a subire le invasioni degli stranieri.
La scrittrice ebbe un’infanzia e un’adolescenza funestata da lutti e disgrazie: un fratello, Santus, era alcolizzato; un altro, Andrea, fu arrestato per piccoli furti. Il padre non ne sopportò la vergogna e morì per crisi cardiaca. Alle sopraggiunte difficoltà economiche si assommarono altri lutti, dispiaceri familiari e umiliazioni per i pregiudizi che condannavano e irridevano il suo impegno letterario. Nonostante tutti questi problemi, la Deledda seppe trovare la sua dimensione e condusse un’esistenza molto tranquilla: fu una moglie e madre di famiglia, che ambiva alla riservatezza di una vita appartata, lontana dai riflettori. La sua unica sua trasgressione, se così si può chiamare, fu l’attenzione al socialismo, che comunque fu ingenua e rapsodica e non operò in profondità, tanto che non fu mai al centro dei suoi libri: i protagonisti delle sue opere, infatti, non sono mai sfiorati dal problema sociale.
Curiosamente, i personaggi usciti dalla penna della sublime scrittrice non le assomigliano affatto, anzi; forse fu proprio perché la Deledda era consapevole di non aver mai creato scandalo, almeno nella vita privata, che delineò alcune figure, soprattutto femminili (era proprio sull’universo femminile che la sua attenzione si concentrava) molto forti, fiere, ma capaci anche di sbagliare. Le protagoniste delle sue opere hanno sempre, nel sangue, il senso di un’oscura colpa; sono come immerse e dissolte in una sorta di magia naturale, tutt’uno con un paesaggio aspro e deserto. Grava su di loro l’atmosfera arcana e pesante del male, la coscienza della debolezza umana, della soggezione al peccato, delle tempeste che travolgono gli uomini senza rimedio.
La forza delle eroine della Deledda sta proprio nel loro indulgere all’errore, in quanto è proprio la consapevolezza delle loro cadute che le rende profondamente umane e capaci, quando occorre, di qualsiasi gesto, fino all’estremo sacrificio, pur di proteggere le persone che amano.
Una delle eroine più riuscite della Deledda è proprio Donna Noemi, protagonista del romanzo Canne al vento. L’opera, ambientata a Galte, un villaggio sardo, racconta la storia delle dame Pintor, tre sorelle nobili, ma prive di solidità economica, la vita delle quali viene sconvolta dall’inaspettato arrivo di un nipote mai conosciuto prima, Giacinto. Il ragazzo, figlio di una quarta sorella e rimasto orfano, cerca il sostegno delle zie, ma aggrava i loro problemi non lavorando e contraendo debiti. Per di più chiede a Don Predu, odiato dalle zie, di farsene garante. Quando Noemi apprende la notizia del fidanzamento del nipote, lei che aveva sempre sdegnosamente rifiutato la corte di Don Predu, si convince ad accettare la proposta di matrimonio dell’uomo. E il suo assenso a sposarsi nasconde un torbido segreto: è segretamente innamorata di Giacinto.
Donna Noemi è il prototipo del personaggio femminile della Deledda. Fiera e superba, ella non si piega davanti a nulla. C’è però qualcosa, o meglio qualcuno, che sembra far vacillare il suo temperamento fiero e altero: suo nipote Giacinto. Di fronte a lui, «le sembrava d’essere distesa sotto un’acqua limpida nel folto di un bosco e di vedere una figura curvarsi a bere, a bere, sopra la sua bocca: era Giacinto, ma era anche lei, Noemi viva, assetata d'amore». Se la fiera donna Noemi sposa, infine, don Predu, non lo fa per motivi economici, sebbene sia ridotta all’indigenza. Lungi dal rappresentare una rinuncia di Noemi alla sua innata dignità, il suo consenso al matrimonio costituisce una volontà di mostrarsi forte di fronte al nipote, oggetto della sua passione incestuosa.
La Deledda non biasima Donna Noemi per il «sentimento colpevole» che la anima perché ha una visione fatalistica della vita ed è convinta che l’uomo, senza volerlo, sia colpito da eventi ineluttabili, che lo travolgono e lo rendono fragile e impotente, proprio come accade alle «canne al vento». La grandezza della scrittrice sta proprio nella sua capacità di essere sempre compassionevole e di comprendere intimamente ogni atto umano, purché mosso dall’amore e non dai giudizi ipocriti di chi non ha mai capito il valore del sacrificio. Un messaggio, questo, quanto mai attuale, e davvero degno di una riscoperta.
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