Annarella e altre storie è solo una delle biografie che ho scritto da quando è nato il progetto de Il Tuo Biografo. Come gran parte dei libri che scrivo, anche questo è destinato a un pubblico privato, familiare. È stato stampato in poche decine di copie e perciò non è possibile trovarlo in libreria. Tuttavia, a differenza della maggior parte delle storie che mi trovo a raccontare, Annarella e altre storie copre un arco di tempo limitato: un'infanzia appena. Si tratta di una raccolta di racconti costruiti attorno a un tema, o a un personaggio specifico, e non vuole rappresentare la complessità di una vita intera. Si basa sui ricordi di D., un uomo nato nella Calabria degli anni Quaranta e cresciuto in quello stesso luogo negli anni Cinquanta. Scrivere questo libro è stato importante per me, perché ho avuto modo di scoprire e narrare un mondo che oggi non c'è più. E, mentre permettevo alla memoria di D. di viaggiare a ritroso e di saldarsi nei racconti che compaiono in questo volume, allo stesso tempo scoprivo alcuni usi e costumi che, senza il mio lavoro, avrebbero rischiato di essere un giorno dimenticati. Data la particolare natura di questo libro, D. mi ha firmato una liberatoria perché possa mostrare alcune pagine di questo libro, ovvero quelle meno personali. Oggi vi propongo il capitolo dedicato al giorno del mercato. Se siete curiosi di saperne di più, qui ho pubblicato un altro racconto - piuttosto umoristico - dedicato alla figura di una nonna molto particolare: devo dire che di Annarella e altre storie è uno dei miei ritratti preferiti!
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IL GIORNO DEL MERCATO
L’estate ad Amantea era un periodo bellissimo. C’erano le vacanze e c’era il mare. Si smetteva di studiare all’inizio di giugno, a volte addirittura a maggio, e poi per quattro mesi si viveva spensierati, liberi dai compiti e dagli obblighi. Era anche il periodo in cui mi capitava più spesso di uscire di casa, giocare all’aperto e vivere una vita un poco più normale per un bambino della mia età. Di quella stagione ricordo soprattutto il mercato della domenica: i contadini arrivavano dalla campagna a dorso della loro ciuccia, sellata con un basto che reggeva da una parte e dall’altra due cesti di vimini pieni dei prodotti da vendere. Gli uomini, a cavalcioni dell’asina, a volte tenevano tra le braccia un bambino, mentre le mogli li seguivano a piedi nudi e con le calze arrotolate, spesso trasportando sulla testa un ulteriore paniere colmo di vettovaglie, e con un altro bimbo tra le braccia. Le donne portavano sui capelli un grande fazzoletto dal colore vivace e dotato di una lunga frangia, che giravano intorno al collo lasciandolo penzolare sulle spalle. A meno che non fosse necessario, i contadini evitavano di consumare inutilmente le suole e così lungo il tragitto le donne camminavano scalze. A ridosso di Amantea si fermavano per mettersi le scarpe e, quasi fossero per loro una divisa, davano inizio alla giornata di lavoro.
Ad Amantea la gran parte degli abitanti era povera e bisognava essere in grado di cogliere le differenze. Chi vendeva i prodotti della terra o quelli del mare apparteneva a una classe sociale inferiore rispetto a coloro che mandavano avanti un’attività, anche quando era misera. Sofia, ad esempio, sebbene abitasse in un basso nella parte alta di Amantea, dove solitamente stavano i marinai, commerciava carbone, carbonella e caffè, che tostava lei stessa dopo averlo acquistato. Alla sua maniera era un’artigiana e un’imprenditrice e questo le veniva riconosciuto da tutti. Diversa era la posizione sociale di un’altra coppia di impresarie, madre e figlia, che vivevano alla Taverna, la parte della città vicino alla ferrovia. Dalla loro casa risuonava sempre forte il suono della radio, che tenevano accesa tutto il giorno. Quando d’estate andavamo al mare, passavamo sempre davanti alla loro casetta, in cui era possibile osservare il viavai di uomini in cerca di piacere. Che io sappia, erano le uniche prostitute di Amantea. Se qualcuno cercava qualcosa di più raffinato bisognava andare a Cosenza, dove si trovava il casino più vicino. Quando passavamo di là, mia madre faceva finta di ignorare le attività che si compivano in quella casa, ma i miei cugini più grandi, in visita per l’estate, sgomitavano e facevano a gara per sbirciare oltre le finestre, anche se raramente vedevano qualcosa di interessante.
Io invece non vedevo l’ora di arrivare al mare. Con Saverio, e con tutti i cugini, scendevamo dalla rupe di Amantea verso Pantalia, dopo essere stati contati da mia madre, che non voleva perdere per strada nessuno. In quindici minuti si arrivava alla spiaggia e, appena posati i piedi sulla sabbia, non perdevamo tempo e ci tuffavamo tra i cavalloni. Mamma era considerata spregiudicata dalle sue amiche, perché non solo ci consentiva di fare il bagno dopo aver mangiato un panino, ma addirittura ci lasciava liberi mentre eravamo in acqua, senza controllarci. Ci divertivamo molto. Ogni tanto lei ci contava di nuovo e, se i conti le tornavano, poteva rilassarsi. Mamma e papà avevano insistito perché imparassimo a nuotare come si deve, perciò avevano incaricato di insegnarcelo alcuni figli di marinai più grandi di noi. Quelle giornate con loro le ricordo piene di gioia. Rimanevamo in spiaggia tutta la mattina fino alle due, poi si rincasava per pranzare. A volte, quando eravamo fortunati, papà passava a prenderci in macchina. Non c’era posto per tutti, e naturalmente la precedenza l’avevano mamma e i bambini più piccoli, tra cui io. Il resto della giornata lo passavamo in casa, in particolar modo sulla grande terrazza del terzo piano dove noi ragazzi scorrazzavamo sui pattini e giocavamo a pallone. La sera, a volte, andavamo a vedere un film all’Arena Sicoli, nella parte nuova di Amantea. In quelle meravigliose giornate estive, insieme a Saverio e ai cugini, la grandezza del nostro palazzo non mi inquietava più.
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