Negli ultimi decenni dell’Ottocento, l’illustrazione fotografica divenne assai diffusa nell’ambito giornalistico. La tecnica per la riproduzione delle immagini nel frattempo si era perfezionata e la zincografia e il rotocalco consentivano alte tirature a costi modesti. Iniziò così l’era del giornalismo fotografico che, sino all'avvento della televisione, sarebbe stato il più importante veicolo di diffusione dell’informazione popolare. Gli albori della storia del fotogiornalismo sono raccontati in maniera dinamica e approfondita da uno dei suoi protagonisti, John G. Morris, nel volume Sguardi sul '900 - Cinquant'anni di fotogiornalismo (che purtroppo oggi è fuori catalogo!), e nel suo lavoro seguente, Get the picture. Una storia molto personale sul fotogiornalismo, edito in Italia da Contrasto.
Nel 1842 - ovvero appena quindici anni dopo la realizzazione della prima fotografia della storia - l’Illustrated London News, il più antico periodico illustrato al mondo, pubblicò il suo primo dagherrotipo. Pochi anni dopo, nel 1869, sul Canadian Illustrated News apparve un’illustrazione ricavata direttamente dalla fotografia con un procedimento fotomeccanico. Nel 1872 il Nuovo Giornale Illustrato stampò una foto di Carl Marx. Il Journal Illustré pubblicò la sua prima intervista fotografica, un servizio di Felix e Adrien Nadar, sullo scienziato francese M.E. Chevreuil: vi comparivano tredici foto accompagnate, a mo' di didascalia, dalle frasi dello scienziato. Nel marzo del 1880 nacque la foto stampata a retino: questa fu una tappa fondamentale per lo sviluppo del fotogiornalismo, poiché cambiò il modo di utilizzare l’immagine fotografica in ambito informativo. Da quel momento in poi, infatti, l’intervento manuale dell’incisore non sarebbe più stato necessario.
L’uso della fotografia per l’indagine sociale e giornalistica si sviluppò soprattutto negli Stati Uniti. Qui la fotografia trovò infatti un ambiente fertile e un’urgenza di comunicazione che i grandi eventi sociali, economici, politici e scientifici del tempo stimolavano in modo particolare. Questo nuovo medium di comunicazione fu subito accolto a pieno diritto nel mondo culturale americano. I giovani fotografi statunitensi avvertivano l’esigenza di documentare gli avvenimenti attraverso le foto e vi si dedicavano con grande entusiasmo.
Fra loro ne emersero alcuni in particolare che avrebbero influenzato il modo di comunicare e di documentare la realtà, sia negli USA che nel vecchio continente. Jacob Riis, cronista del quotidiano New York Tribune, scelse di illustrare con la fotografia la vita dei diseredati delle città e segnalò all’opinione pubblica americana la drammatica situazione negli slums nel suo famoso libro How the other half lives (cliccando qui, potrete sfogliare il suo prezioso volume sulla pagina del Progetto Gutenberg) La sua testimonianza fu così efficace da provocare l’intervento delle autorità per eliminare il più possibile la piaga sociale della miseria così magistralmente ritratta nelle sue foto.
Una famiglia di migranti italiani ritratta da Lewis Hine (1905)
Anche per Lewis Hine la fotografia fu uno strumento d’indagine sociale e di documentazione inconfutabile. Tra i temi che affrontò con le sue fotografie ebbero particolare risonanza i reportage sulla vita degli emigrati europei, grazie a cui venne aperta un’inchiesta sui minatori di Pittisburg, sul lavoro minorile e sulle fasi di costruzione dell’Empire State Building.
Arnold Genthe, trasferitosi dalla Germania nel 1895, fu un altro eccezionale cronista-fotografo americano. Inizialmente si dedicò al ritratto, che presto lasciò per applicarsi alla fotografia documentaria. Genthe è ricordato per le immagini di vita realizzate nel 1896 nel quartiere cinese di San Francisco e per la documentazione del devastante terremoto che travolse la città nel 1906.
L’urgenza informativa era ormai sentita come un valore primario nel clima teso e scosso di quegli anni, non solo dai nuovi fotografi-cronisti, ma anche dalle autorità governative. Si pensi ad esempio alla documentazione sulla Guerra di Secessione avallata dal presidente Lincoln: durante questo conflitto molti fotografi abbandonarono i loro studi, si organizzarono in squadre e percorsero i campi di battaglia con la macchina fotografica sulle spalle. Molte testate giornalistiche mandarono al fronte dei corrispondenti - solo l’Herald ne mandò una quarantina! Fu la prima guerra a ottenere una copertura giornalistica simile.
Nell’ambito del rilancio proposto dal presidente Theodore Roosewelt con il New Deal, il compito di documentare la drammatica crisi economica del 1929-1930 venne affidato ad un’equipe di fotografi, a capo della quale c'era Roy Striker, che, pur non essendo un fotografo, aveva una chiara idea di come usare la fotografia in un’indagine sociologica. L’equipe di Striker avrebbe prodotto oltre duecentomila fotografie. Ormai era chiaro che la fotografia trovava giustificazione e la sua più funzionale applicazione sulla pagina del giornale, che in quegli anni modificò le sue strutture e la sua fisionomia tradizionale per dare spazio alla testimonianza fotografica. Essa veniva ormai comunemente usata dai giornali con lo scopo di illustrare i testi, ma anche come semplice decorazione.
Il primo giornale a dare valore informativo e comunicativo al testo fotografico fu la rivista Life, fondata nel 1936 da Henry Luce. Si trattava di una rivista di nuova concezione, capace di raggiungere un notevole successo in tutto il mondo - vendeva regolamente nove milioni di copie - e di favorire una trasformazione strutturale nel giornalismo illustrato internazionale, che per oltre trent’anni avrebbe visto in Life un insuperabile parametro di confronto. La fotografia su Life aveva un ruolo dominante e ogni reportage era affidato totalmente allo stile del fotografo, mentre al testo scritto competeva solo l’aggiunta esplicativa e la funzione didascalica. Life accolse alcuni dei maggiori fotografi dell'epoca, da Alfred Eisenstead a Philippe Halsmann, da Margaret Bourke-White a Henry Cartier-Bresson, da Robert Capa a David Duncan.
Tutti questi fotografi erano accomunati da un impegno civile che nutriva un’informazione dinamica e pregnante, connotata da una visione del mondo raffinata e intrisa di pathos. Sono indimenticabili i reportage di Alfred Eisenstead eseguiti in Etiopia per l’agenzia Associated Press e per Life, quelli sulle piogge tropicali della Guaina e la serie di ritratti di celebri personaggi, soggetti a cui si dedicò con notevoli risultati anche Philippe Halsmann.
Margaret Bourke-White, i cui scatti vennero pubblicati sulla prima copertina di Life, fu la più rilevante collaboratrice della rivista; la sua opera, che consta di oltre trecentomila fotografie, è una viva ed intensa testimonianza delle vicende e del costume dei suoi tempi. Nei suoi numerosi viaggi Bourke-White raccolse immagini di gran forza evocativa, che gli storici avrebbero presto considerato come importanti documento storici. Nel 1937 pubblicò il volume Avete visto i loro volti (che se volete sfogliare è ancora in commercio), A nord del Danubio e un fotolibro sugli Stati Uniti. La guerra in Russia, del 1939, conteneva le immagini scattate da Bourke-White durante quel conflitto, dove fu presente come unico fotoreporter americano. Nel 1945 era presente alla liberazione del campo di sterminio di Buchenwald, in cui documentò i corpi e i volti dei superstiti della soluzione finale nazista.
I superstiti del campo di sterminio di Buchenwald ritratti, oltre il filo spinato, da Margaret Bourke-White nei giorni della sua liberazione, nell'aprile del 1945
David Duncan documentò per Life la guerra in Corea e, successivamente, quella in Vietnam. Egli proponeva della guerra un’immagine lontana, distaccata, cinematografica. Il secondo conflitto mondiale vide impegnati molti tra i fotografi di Life, il più noto dei quali fu senz’altro Robert Capa (di cui presto il blog de Il Tuo Biografo vi renderà un profilo succoso!), che ha lasciato in eredità un repertorio d’immagini che testimoniano le vicende belliche in tutta la loro tristezza e crudeltà. Capa credeva invece in una fotografia dinamica, essenziale, fissata rapidamente e con la massima obiettività; da queste idee, condivise da amici come Henry Cartier-Bresson, Rodger, Vandevert e Maria Eisner, David Seymour e John Morris, nacque nel 1947 la mitica agenzia foto-giornalistica Magnum, che, secondo l'intento di Capa, doveva essere un’agenzia fotografica posseduta dagli stessi fotografi, che dovevano poter disporre dell’uso incondizionato sia dei negativi che delle loro foto.
Nello stesso tempo, John Morris, il primo photo-editor di Life, progettò una serie di foto scattate in ogni angolo del mondo per ritrarre diverse famiglie nel loro contesto e spiegare così «la gente alla gente». Morris discusse dell’idea con Robert Capa, che s'innamorò del progetto. Nell’estate del 1947 la Magnum stanziò un budget di quindicimila dollari per coprire le spese dei vari fotoreporter, che si suddivisero le diverse zone geografiche del mondo. Il servizio fu completato nell’autunno del 1948 e, nonostante i problemi che sopravvennero soprattutto con la censura russa, le foto vennero arricchite da didascalie scritte dallo scrittore premio Nobel John Steinbeck. Questo reportage, di cui il blog de Il Tuo Biografo vi ha già parlato in questo articolo, venne comperato in esclusiva da Bruce Gould, direttore associato del Ladies’ Home Journal, e suscitò grande scalpore.
Ormai il giornalismo non poteva più fare a meno dell'immagine fotografica.
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L'articolo che hai appena letto fa parte di una serie che Il Tuo Biografo sta dedicando alla storia della fotografia e del fotogiornalismo. Qui, per esempio, ho raccontato come nell'Ottocento nacque lo strumento portentoso della fotografia, mentre invece qui trovi una retrospettiva sul fotogiornalismo italiano. Più di ogni altro evento la tragicità della guerra ha trovato la sua massima rappresentazione nella fotografia, forse perché le parole a volte non bastano a spiegare pienamente l'orrore, e di questo ho parlato in questo articolo. Lo sapeva bene il grande fotografo di guerra Robert Capa, di cui qui ho raccontato la breve ma intensa biografia. La guerra può lasciare segni profondi sul corpo e sull'anima di chi l'ha conosciuta da vicino: lo spiega bene il progetto fotografico di David Jay, di cui ho parlato qui.
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