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Immagine del redattoreNina Ferrari

«Il brutto anatroccolo», una fiaba che celebra la diversità




«Non importa essere nati nel cortile delle anatre


quando si è usciti da un uovo di cigno!»



Hans Christian Andersen

Il brutto anatroccolo




Il brutto anatroccolo, dai cui è tratta la citazione che introduce questa pagina, è una delle fiabe letterarie più amate e conosciute di Hans Christian Andersen, scrittore danese frequentato da grandi e bambini di tutto il mondo grazie a opere universali come La Sirenetta, I vestiti nuovi dell'imperatore o La piccola fiammiferaia, oltre a tanti altri racconti per grandi e piccini che ormai sono diventati costitutivi della cultura occidentale. Della sua biografia e delle sue opere il blog de Il Tuo Biografo ha già parlato in questo articolo, a cui certamente vi rimando se vi va di approfondire la sua figura.


Il brutto anatroccolo fu pubblicata per la prima volta nel 1843 e si distingue dalle altre fiabe di Andersen - come, ad esempio, anche Il soldatino di stagno - perché, più di ogni altro suo scritto, espone profondamente un tema molto caro allo scrittore, quello della diversità.


In questa fiaba, infatti, si racconta la storia di un cucciolo d'anatra grigio e goffo, che per queste ragioni fin dalla nascita subisce l'emarginazione dei suoi candidi fratelli. Mamma anatra cerca di difenderlo finché può, ma non riesce a fare a meno di notare a sua volta l'irritante difformità del suo pulcino. E queste sono cose che fanno male. Soggetto a continue angherie, il piccolo decide di fuggire dallo stagno per trovare casa altrove, ma nel corso del suo viaggio senza meta non fa che incontrare situazioni da cui si sente escluso, rigettato o maltrattato. Ad attenderlo c'è l'inverno, il fango, la neve, in cui rischia di congelare. Passa il tempo, sopraggiunge la primavera, che miracolosamente lo accoglie ancora vivo. L'anatroccolo ramingo si approssima a uno specchio d'acqua in cui vede nuotare un gruppo di creature bellissime e maestose, i cigni: attratto dalla loro grazia, gli si avvicina, e rimane di stucco quando per la prima volta nella sua vita non viene allontanato; anzi, viene accolto con calore. Nuotando al loro fianco, dopo tanto tempo osserva il proprio riflesso nell'acqua: il piccolo anatroccolo non è mai stato un anatroccolo, è diventato un cigno! La sua diversità, a lungo canzonata, nascondeva dunque la bellezza della creatura più regale dello stagno. La diversità che a lungo lo aveva fatto soffrire non era che un indizio del suo essere speciale, del suo essere destinato a una grandezza che nessun animale ordinario poteva capire finché era solo un cucciolo. Ora che il brutto anatroccolo ha trovato casa, ha anche trovato se stesso.


Il brutto anatroccolo è una meravigliosa e dolorosa metafora della diversità, vissuta e raccontata come solitudine ed esilio. Parla innanzitutto a bambini e ragazzi incitandoli a riflettere sul valore che può celarsi dietro a chi non ci sembra immediatamente incasellabile, e che perciò in molti sono portati - a torto - a estromettere o a prendere in giro. In mezzo a tanti candidi pulcini, quale può essere la virtù di un goffo anatroccolo grigio? Spesso siamo portati a respingere ciò che di primo acchito ci sembra estraneo, ma si tratta certo di un comportamento superficiale, perché il brutto anatroccolo che oggi ci fa ridere un giorno potrebbe sbalordirci mostrandosi cigno e colpirci per la sua bellezza o il suo talento.


D'altro canto, Il brutto anatroccolo parla direttamente anche a tutti i giovani outsider del mondo: ricorda loro che essere esclusi dal gruppo, o dal branco, non ha nulla a che vedere col proprio intrinseco valore. Anzi: è possibile che proprio ciò che rende speciale un giovane individuo - e che di fatto lo rende diverso dai suoi coetanei - sia ciò che da grande lo distinguerà dalla massa, finendo per rappresentare la cifra della sua fortuna. Il percorso per appropriarsi della propria diversità - sia esso un talento, una cultura o un modo d'essere - può essere solitario e doloroso, ma può infine condurre a una forma di felicità consapevole e straordinaria. Trovare qualcuno che ci capisca e che riconosca la bellezza che portiamo dentro e fuori non è impossibile, anzi, anche se per alcuni il percorso per arrivarci può essere più lungo che per altri.


Nell'introduzione delle Fiabe di Andersen edite da Einaudi, Gianni Rodari, che ne curò il volume (e di cui il blog de Il Tuo Biografo ha già parlato qui), si chiese: «A che cosa servono le fiabe? Se dovessero servire a ispirare buoni sentimenti, come forse anche Andersen credeva, morirebbero a ogni generazione, ogni volta che la gente si fa un'idea diversa di quelli che sono i "buoni sentimenti". Secondo noi le fiabe servono soprattutto alla formazione della mente: di una mente aperta in tutte le direzioni del possibile. Toccano, nel bambino, la molla dell'immaginazione: una molla essenziale alla sua formazione di uomo completo». Se dunque dovessimo pensare alla morale profonda della fiaba de Il brutto anatroccolo, a cosa penseremmo?


A questo: non demordere.


Perché la diversità non è un valore distintivo, e in sé non è positiva né negativa, anche se a livello quotidiano può creare amare e inutili tensioni. Poiché spesso conduce al confronto con la propria solitudine, la diversità può essere un accidente doloroso, ma anche un bersaglio facile, su cui alcuni amano gettare le proprie insicurezze e frustrazioni. Eppure non ha a che fare con l'essenza di ciò che siamo: perché «non importa essere nati nel cortile delle anatre quando si è usciti da un uovo di cigno!». Tutti coloro che si sentono o si sono mai sentiti dei brutti anatroccoli devono poter ricordare che dentro di loro si cela una creatura meravigliosa e regale, che non va mortificata, ma celebrata. Bisogna coltivarlo, quel cigno, bisogna permettergli di farsi vedere, innanzitutto a noi stessi ancora prima che agli altri.


Una delle caratteristiche peculiari delle fiabe di Hans Christian Andersen riguarda i rimandi diretti tra le sue opere e la sua biografia. Infatti, a differenza di altri grandi narratori per l'infanzia, come ad esempio lo furono i fratelli Grimm, che nel loro corpus raccolsero per fissare fiabe popolari della tradizione germanica, le opere di Andersen erano originali, frutto diretto della sua creatività e della sua vita interiore ed esteriore. Le sue fiabe letterarie, in cui trovava spazio anche una certa sperimentazione linguistica, avevano abbandonato figure fantastiche come quella della strega o della fata, per sostituirle con elementi meravigliosi ma possibili, immaginari ma - in qualche modo - realistici: lo è la coscienza del brutto anatroccolo come quella del soldatino di stagno, come anche - in una dimensione molto più drammatica - le visioni che la piccola fiammiferaia ha della sua nonna in ogni breve lingua di fuoco con la quale cerca di scaldarsi nella notte gelida, un fiammifero alla volta.


I protagonisti delle fiabe di Andersen non appartengono a un altro universo, ma sono raccontati attraverso uno sguardo diverso, il suo. È la fantasia dell'autore a dare nuovi significati a figure o dettagli reali, che si fanno portatori di un senso intimo, esistenziale, ma comunque magico e profondo.


In che modo dunque la diversità giocò un ruolo così importante nella vita di Andersen, tanto che la raccontò in modo magistrale in molte fiabe, ma in particolare ne Il brutto anatroccolo? L'autore danese fu molto apprezzato dai suoi contemporanei, soprattutto in tarda età, ma la strada per ottenere un riconoscimento - anche internazionale - fu ardua: come racconta la sua biografia, proveniva da una famiglia umile e da ragazzo lavorò come garzone in diverse botteghe. Solo grazie al favore di un ricco benefattore ebbe la possibilità di studiare e di nutrire la sua indole sensibile e fantasiosa, fino a cimentarsi prima nella scrittura teatrale e poi nella stesura delle sue fiabe immortali.


Per tutta la sua giovinezza era stato però canzonato dai propri coetanei per il suo aspetto dinoccolato e quasi femmineo - era molto alto e molto magro e aveva piedi grandi che lo rendevano particolarmente impacciato - e per il suo carattere introverso. Quando si avvicinò agli studi superiori, si trovò sempre circondato da ragazzi più giovani che lo giudicavano per la sua età e per le lacune di un'istruzione elementare frammentata. Sebbene avesse sicuramente fatto esperienza del dolore dell'amore non corrisposto, nei confronti di donne a cui a volte non aveva neppure trovato il coraggio di dichiararsi, tutti i critici concordano sull'eventualità che egli non avesse mai fatto esperienza di una relazione amorosa, significativa o no. Alcuni sospettano che Andersen fosse omosessuale o bisessuale, ma che la sua morale cristiana puritana gli avesse impedito di consumare l'amore nel peccato. Fatto sta che - pur avendo espresso molte volte il desiderio di amare, di condividere la sua esistenza con qualcuno di speciale, e che lo reputasse speciale - egli restò solo tutta la vita. Raggiunse il successo, fu acclamato per le sue opere, ma si sentì sempre respinto, diverso, e condusse un'esistenza sentimentale solitaria.


Andersen fu il primo brutto anatroccolo scopertosi cigno, ma, a differenza del suo doppio di fantasia, non riuscì mai a trovare il proprio stagno, né una casa o una famiglia che lo vedesse intimamente come un proprio simile, da amare e proteggere. Nonostante questo, oggi è amato da tutti i suoi lettori grandi e piccoli, che nelle sue storie a volte rivedono se stessi e da esse vengono ispirati - proprio come suggeriva Rodari - a formarsi come persone un po' più «complete».



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