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Immagine del redattoreFederica Focà

Storia della follia in Italia: Alda Merini, i manicomi e il dolore dell’internamento




Se volete sapere qualcosa di più su Federica Focà, autrice di questo articolo, cliccate qui.


Alda Merini (1931-2009) è una delle poetesse italiane contemporanee più amate e tutti conosciamo almeno un aspetto della sua vita tormentata, cioè il suo ricovero decennale in manicomio. Se ve lo siete perso, il blog de Il Tuo Biografo ha dedicato un approfondimento a questo argomento, di cui la poetessa scrisse in prima persona, e che se volete leggere trovate qui.


Ad ogni modo, Alda Merini fu ricoverata in ospedale psichiatrico per ben tre volte: la prima all’età di sedici anni, la seconda dal 1964 al 1972 nell’istituto Paolo Pini di Milano, e la terza a Taranto nel 1986. E in effetti, se si vuole comprendere appieno la statura morale e la forza di quella che fu, oltre che una grande artista, una straordinaria donna, non si può prescindere dalla comprensione del contesto in cui avvenne la sua esperienza di internamento in manicomio.


Ecco perché un breve excursus sulla situazione degli ospedali psichiatrici al tempo in cui vi fu reclusa la poetessa può far comprendere meglio quale miracolo ella abbia compiuto nel trasformare il dolore dell’internamento in una fonte di ispirazione per la sua sublime produzione letteraria, che raggiunse il suo apice con l’opera La terra santa, testo che le valse il Premio Librex Montale nel 1993 e che narra proprio della sua sconvolgente permanenza in ospedale psichiatrico.


In Italia, la prima legge ad occuparsi dei malati mentali fu la n. 36 del 1904, emanata sotto il Governo Giolitti. Tale provvedimento normativo definiva “manicomi” gli istituti destinati ad ospitare i pazienti colti da “alienazione mentale”. In tali strutture dovevano essere obbligatoriamente ricoverate le persone che presentassero la «manifesta tendenza a commettere violenza contro se stessi o contro altri». Già da queste parole risulta chiara la considerazione sociale del malato di mente come di un soggetto pericoloso, nei confronti del quale è necessario prendere delle contromisure volte al controllo più che alla cura.


Il ricovero in manicomio poteva essere richiesto dal diretto interessato, dalla famiglia o da chiunque altro, oppure poteva essere ordinato provvisoriamente dall'Autorità locale di Pubblica Sicurezza. In quest’ultimo caso, dopo un mese dall’internamento, se il direttore del manicomio indicava come necessario il ricovero veniva chiesta al Tribunale l’autorizzazione definitiva. Teoricamente l’Autorità Giudiziaria aveva il compito di verificare, nell’ambito di un vero e proprio processo, se il ricovero non costituisse un abuso, ma nella realtà la magistratura dell’epoca rinunciò ad assolvere a questa funzione di controllo, considerandola come un inutile adempimento burocratico.


La situazione dell’alienato, dunque, era a dir poco drammatica, e non solo perché chiunque poteva essere internato in assenza di una reale verifica sulla necessità del ricovero. Infatti, lo stesso stretto coinvolgimento dell’Autorità Giudiziaria nella procedura volta all’internamento in manicomio dei cosiddetti malati di mente è testimonianza del fatto che chi veniva dichiarato alienato era sostanzialmente equiparato a un delinquente comune, tanto che nel 1930 venne addirittura previsto l’obbligo di registrare i ricoverati negli ospedali psichiatrici nel casellario giudiziale.


Inoltre, anche se in teoria le dimissioni dal manicomio erano previste ad avvenuta guarigione del paziente, all’interno dei manicomi non solo mancavano totalmente strumenti di terapia risolutivi, ma proprio a causa dell’associazione tra malattia mentale e pericolosità venivano adottate, ai danni dell’alienato, delle procedure degradanti, che sfociavano in vere e proprie torture. Tra queste si segnalano, al momento dell’ammissione, il ritiro degli effetti personali, l’assegnazione di un numero e l’obbligo di portare un’uniforme; in seguito, ogni atto valutato come eversivo era suscettibile di essere punito con vere e proprie torture.


Questi trattamenti avevano l’effetto di annullare, fino ad azzerare, l’identità di una persona. Per di più, si consideri che molte donne ricoverate in manicomio erano perfettamente sane di mente. Infatti, durante la Prima Guerra Mondiale finivano in manicomio soprattutto le donne che manifestavano gravi sintomi depressivi strettamente correlati agli eventi bellici, e che per questo venivano inquadrate in quella categoria psichicamente tarata, incapace di sopportare l’urto degli eventi, nei confronti della quale era considerato un bene adottare delle misure di risanamento. In epoca fascista la situazione peggiorò, in quanto si accentuò la dimensione di controllo dei manicomi: è in questa fase storica che in manicomio finiva quella che veniva definita la «malacarne», composta da quelle donne che si discostavano dall’ideale fascista della sposa e madre esemplare e che con le loro condotte intemperanti rischiavano di intaccare il patrimonio biologico e morale dello Stato.


Nel secondo Dopoguerra la situazione non migliorò: in manicomio finivano donne sane, ma che avevano manifestato un temperamento ribelle, in quanto magari si erano rese protagoniste di litigi in famiglia o con vicini di casa, oppure si erano mostrate recalcitranti rispetto alla disciplina familiare o, peggio, si erano abbandonate a disdicevoli avventure amorose con uno o più giovanotti. Fu solo nel 1968, con la legge Mariotti, che vide la luce il primo provvedimento normativo che rese meno inaccettabili le condizioni dei ricoverati in ospedale psichiatrico. Infine, la cosiddetta legge Basaglia del 1978 abolì i manicomi, eliminò il concetto di pericolosità per sé e per gli altri del malato di mente e collocò l’assistenza psichiatrica nel contesto dei normali servizi ospedalieri e ambulatoriali.


Nella sua eccellente produzione letteraria Alda Merini racconta di quando l’indicibile tormento dell’ospedale psichiatrico toccò a lei. La poetessa sperimentò, sulla propria pelle, orribili torture: fu legata mani e piedi al letto come punizione per la propria insonnia, subì elettroshock senza anestesia per aver risposto male a un’infermiera, visse l’umiliazione, lei che era tanto pudica, di doversi spogliare davanti a tutti per essere lavata con l’acqua fredda. Questo trattamento, degno di un lager, ella lo affrontò con coraggio e soprattutto senza mai rinunciare alla speranza di essere felice, tanto che nel manicomio trovò anche l’amore: un paziente chiamato Pierre, che però in seguito fu trasferito in un altro istituto proprio a causa della sua passione per la poetessa.


All’uscita dal manicomio, Alda Merini seppe trasformare l’orrore in poesia, dando voce al dolore di tanti uomini e donne la cui sofferenza non verrà dimenticata grazie ai suoi stupendi versi. Questo è il merito di un’artista che ha sperimentato tutto della vita: il dolore, la miseria e la perdita, ma anche l’amore e infine il riconoscimento per una produzione letteraria indimenticabile.


Se vuoi approfondire la storia e la poesia di Alda Merini, clicca qui.

51.167 visualizzazioni3 commenti

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3 Comments


Fabrizia Daolio
Fabrizia Daolio
Oct 14, 2021

Bello questo articolo non conoscevo di storia di Alda Merini, mi ha commossa. In quegli anni si finiva in manicomio per molto poco.

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Nina Ferrari
Nina Ferrari
May 28, 2020

Grazie per il tuo prezioso contributo ssannaro. In effetti nella storia della follia o dei manicomi un punto fondamentale è stata la definizione di cosa poteva essere definito "normale" all'interno della società ed esistono diversi studi, tutti molto interessanti, che segnalano come la malattia mentale sia stata di volta in volta inquadrata in modo diverso a seconda delle epoche. A mio parere in questo senso il testo forse più illuminante è Gli Anormali di Michel Foucault, che ripercorre qualche secolo di storia individuando per ogni fase un "anormale" diverso, un diverso malato mentale, un identikit di ciò che società diverse nel corso del tempo hanno considerato come pericoloso per la collettività. Per chi fosse interessato a questo testo, qui segnalo…

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ssannaro
May 28, 2020

La diversità, letta dalla nostra prospettiva di “normali”, può arrivare al diverso come una nostra pervasiva anormalità. Dipende dai punti di vista e dall’empatia che riusciamo a liberare dalla nostra anima. I manicomi, casa degli alienati, erano il luogo dove veniva raccolta come “spazzatura ingombrante “ quello che la società non riusciva a catalogare secondo l’inesistente DSM della normalità. Perché ritengo che per definire ciò che non è normale, bisognerebbe definire nello stesso modo, ciò che può essere ritenuto normale. Un termine di riferimento bisognerebbe averlo, per arrivare ad esercitare un potere così grande come quello di sradicare qualcuno dalla sua vita, come ad esempio è accaduto ad Alda Merini.

Ho conosciuto nella mia vita un professionista della mente e…

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